La beatitudine: contentezza dell'essere
“Infatti la beatitudine non sta nel molto e nel molteplice, ma nell’Uno e nell’unità” Libretto della vita perfetta (9)– Anonimo Francofortese
Prima di capire come si possa giungere dalla contentezza alla beatitudine, dobbiamo anzitutto ricordare che la contentezza è uno stato d’animo che non può dipendere dal successo o dall’insuccesso come ‘nell’accontentamento’ e che la beatitudine non è altro che la naturale espansione di uno stato mentale sattvico di contentezza.
Persino il sorriso di un neonato ci dice come la contentezza sia connaturata all’essere umano, perché egli pare sorridere solo per avere ricevuto in dono l’esistenza, come se la sua anima fosse consapevole che vivere è condizione necessaria per realizzare appieno il proprio potenziale di felicità.
La contentezza si esprime nelle relazioni sotto forma di amore consapevole, in quel rapporto di fiducia che s’instaura fra noi e l’altro, e quando quest’altro è Dio, tale relazione si chiama Fede. Quindi, la Fede non è qualcosa che sopraggiunge, ma è una relazione che va coltivata dentro di noi, è un rapporto di fiducia che s’instaura dapprima con noi stessi. Quello che si dice ‘avere fiducia in sé stessi’ è il campo, fertile, dove la fede potrà sviluppare le sue radici e dare alla luce i propri frutti spirituali. Persino una vocazione ‘fulminante’, non è altro che lo stato d’animo sattvico di una contentezza che tracima, fondata sulla piena fiducia in se stessi, là dove nel profondo si è sentita la voce della coscienza divina.
In analogia con lo Yoga, la ‘discesa’ dello Spirito Santo invocata nel canto gregoriano ‘Veni Sancte Spiritus’, possiamo farla corrispondere a un’espansione del prāna, esaltata dall’effetto di quello speciale stato di grazia – prasāda – che ci consente di riconoscere e sentire vivo dentro di noi lo Spirito.
Come ben sa ogni serio praticante di Yoga, l’effetto del prānāyama, ovvero dell’espansione dell’energia vitale, consiste nell’applicare diverse tecniche specifiche, ma tutte basate sulla massima attenzione all’atto respiratorio, in ciascuna delle sue quattro fasi (IN, RP, ES, RV).
All’inizio, il controllo del respiro serve a calmare la mente dalle sue frenetiche attività. Una volta ottenuta una mente capace di concentrarsi su un solo oggetto, senza altre distrazioni, se lo yogin prosegue e rivolge tutta l’attenzione all’origine del proprio respiro, e infine, lo sospende, la mente potrà arrestarsi del tutto, rimanendo così ‘assorta’ nella pura contemplazione dell’essere, in quella dimensione atemporale chiamata stato di grazia contemplativa.
La concentrazione sull’atto respiratorio si evolve nel tempo in una meditazione sull’origine della nostra vita, la quale, nel momento in cui sopraggiunge ‘la grazia’, culmina nella contemplazione della propria essenza, comunemente chiamata Spirito, e si è nella beatitudine.
Questa tecnica di invocare la grazia divina tramite il respiro, magari durante la preghiera, è stata ed è in uso ancora oggi in India. In occidente, è comunque nota negli ordini monastici fin dai tempi lontani dei ‘padri del deserto’.
Nel ‘Veni Sancte Spiritus’, la discesa, ovvero l’espansione interiore dello Spirito, viene metaforicamente e poeticamente invocata come discesa dall’alto, ma nella pratica sappiamo che si tratta di fare spazio al divino dentro di noi, operando una purificazione preventiva a livello psico-fisico. Così, nell’invocazione, troviamo i versi:
Lava ciò che è sordido,
bagna ciò che è arido,
L’acqua pulisce lo sporco, inteso in questo caso in senso morale, quindi purifica quelle azione basse, istintive, che offendono la dignità umana. L’obiettivo di questa purificazione è la mente che non può manifestarsi separata dal proprio corpo, per questo la disciplina dello Yoga è stata adottata e perfezionata nel corso dei secoli, per mettere a disposizione dell’aspirante spirituale le tecniche sperimentate da quegli antichi maestri che ricercavano la conoscenza celata nel profondo di se stessi partendo dal corpo.
Ma l’acqua serve anche a bagnare, cioè a vivificare ‘ciò che è arido’; significa che se non c’è un certo entusiasmo durante la purificazione, un’aspirazione a far crescere qualcosa al nostro interno, in quello spazio, per quanto ripulito, l’esperienza dello Spirito non avrà luogo.
Piega ciò che è rigido,
scalda ciò che è gelido,
drizza ciò che è sviato.
Dove ‘ciò che è rigido’ e da ‘piegare’ è la ferrea volontà del nostro egoismo, con le sue sovrastrutture mentali che come barricate dove si ammucchiano attaccamenti, avversioni e paure bloccano il flusso del prāna, veicolo di quello Spirito invocato.
Dove il calore del tapas, attraverso la pratica, ‘scalda ciò che è gelido’, quindi scioglie la nostra gelida razionalità, la nostra mente mondana, indolente e vaga, predisponendola all’aspirazione divina. L’effetto ultimo di quel fuoco purificatore sarà proprio la beatifica visione della nostra divina luce interiore.
Anche in questa invocazione cristiana, come nello Yoga, nel piegare ‘ciò che è rigido’ viene ribadita la necessità di essere flessibili, così come si deve pure essere forti per drizzare ‘ciò che è sviato’, ovvero si ribadisce la necessità di avere forza e pazienza, perseveranza nella pratica delle virtù e distacco dai nostri abituali vizi comportamentali.
In definitiva, ci si ammala di scontentezza ogni volta che abdichiamo a noi stessi, quando ci si allontana dal nostro centro di felicità e pace, verso le vie centrifughe dove si propaga l’ego. Nelle periferie dell’essere, nel territorio del divenire, si soffre di egoismo. Invece, quando si ama si è contenti, più di quando ci si sente amati, poiché amare è un processo dinamico, mentre essere amati è uno stato passivo che può indurre all’egoismo. L’amore, al suo più alto livello, è lo stato puro dell’essere che ascolta in se stesso la voce silenziosa della libertà assoluta. È questa libertà ‘amorosa’, un’espansione interiore che dona gioia, la cui frequentazione ci colloca nella beatitudine per effetto di un supremo stato realizzavo. Per essere beati bisogna sentirsi liberi, e si è liberi soltanto nell’amore, mentre nell’egoismo ci si vincola alla sofferenza e si diventa schiavi del possesso, delle avversioni, della paura, dell’ira o della mancanza di perdono.
Secondo lo Yoga, in colui che si è ‘liberato in vita’ (jivan–mukhti) la contentezza (santosha) diventa stabile beatitudine (ānanda). È il più alto livello di consapevolezza spirituale raggiungibile da un essere umano. Ma come si fa a essere liberati, pur restando nel mondo?
La dottrina dello Yoga asserisce che utilizzando delle specifiche tecniche è possibile essere liberi dalle turbolente attività della mente, magari anche solo per pochi secondi, ma già sufficienti a permetterci di assaporare la beatitudine della Verità.
Così, come dietro al buio si trova la Luce, allo stesso modo, strappando il velo dell’ignoranza mentale (avidyā) l’essere umano scopre la Conoscenza salvifica che lo rende felice.
Patañjali ci dice che bisogna eliminare ogni ‘abitudine’ (samskara) ed estirpare ogni ‘impressione latente’ (vāsāna) per entrare in quello stato di suprema e beatifica saggezza che egli definisce come ‘nuvola della virtù’ (dharma-megha samādhi), lo stato contemplativo permanente di una nuvola colma di saggezza che si dissolve in una salutare pioggia di amore puro e libertà assoluta.
In Oriente, è invalso il costume di meditare sulla bellezza dell’esperienza di chi ha ottenuto la conoscenza profonda della realtà attraverso la propria contemplazione. Nella cultura occidentale, il mediatore per antonomasia della visione divina è il Cristo, così come sostiene S.Agostino nel suo ‘De Trinitate’, dove si dice che tramite lo Spirito Santo l’uomo diventa capace di Dio – Homo capax dei est – raggiungendo il Padre nella contemplazione, ma solo a patto di una preventiva purificazione, che altro non è che un fare spazio interiore per accogliere la ‘Grazia’, attraverso un assoluto svuotamento mentale.
Per il sapiente che realizza tale visione o conoscenza, la beatitudine, ‘stabilizzata’ nel cuore, è l’effetto di un’assoluta sensazione di Libertà che coincide con un’assoluto sentimento di Amore.
Esiste un’equivalenza che si potrebbe definire sacra, dove Amore, Libertà e Verità coincidono nello stato di beatitudine che vive colui che potremmo definire un sapiente, un santo o un ‘liberato in vita’.
Lo stesso S.Agostino afferma che ‘La beatitudine consiste nella gioia della Verità’.
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“(avendo praticato l’ascesi) Conobbe che Il brahman è beatitudine,
perché dalla beatitudine nascono invero gli esseri,
mediante la beatitudine, una volta che sono nati, vivono,
nella beatitudine ritornano allorché muoiono.”
Taittirīya-upanishad – Bhṛgu-vallī [VI° anuvaka 1,4]
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Infine, cercando di definire ulteriormente il concetto di beatitudine, si potrebbe dire:
Beatitudine è restare in se stessi.
Beatitudine è restare nell’essere.
Beatitudine è restare in uno stato di grazia divina.
Beatitudine è essere per l’essere.
Il Sé è l’essere in se stesso.
E il silenzio è l’effetto di quell’essere in se stesso.
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Quando la mente si svuota, restiamo nella purezza della beatitudine, nel folgorante silenzio dell’Amore e della più alta Libertà.
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Interlocutore: “Allora la coscienza non può dare alcun piacere?
Ramana Maharshi: “La sua natura è beatitudine. Esiste soltanto la beatitudine. Non esiste un fruitore che goda del piacere. La gioia e colui che la prova si fondono in essa.”
Discorsi con Ramana (pag.202)
– sat-cit-ānanda –