E SE AMLETO AVESSE PRATICATO LO YOGA?

Nel più celebre monologo di Shakespeare, Amleto rimugina fra sé: “Essere o non essere…” Molto è stato detto su questa battuta del giovane principe smarrito nella sua crisi profonda, ma andando oltre la contrapposizione drammatica tra vita e morte, tra agire e non agire, è soprattutto sul come agire in casi come questi, di confusione mentale e di forti dubbi che lo strumento dello Yoga potrebbe fornirci indicazioni utili. Prenderemo a pretesto la vicenda dello sventurato principe proprio per spiegare alcune modalità relative all’applicazione dello Yoga.

“[…] Le azioni dei tristi puoi coprirle con tutta la terra di questo mondo, sempre riemergeranno, e nitide, agli occhi degli uomini”. È già un Amleto che parla fra sé, in chiusura della seconda scena del primo atto, sempre con il suo tipico stile addolorato e pungente. Orazio e le due sentinelle gli hanno appena riferito della visione dello spettro del padre sulla piattaforma del castello reale, e da ora in poi sarà questo spettro ad alimentare la sua fantasia, fino a farla culminare nel piano di un massacro. In fondo alla sua disperazione, il ragazzo non troverà distacco e compassione, ma sofferenza e vendetta. La vera tragedia è proprio in questo: nonostante Amleto, rivolto a un Orazio atterrito dinanzi al ripresentarsi dello spettro, affermi di non temere per la propria vita, né per la sua anima – “[…] E non è immortale come lui? Che male può farle?” – non riuscirà a discernere fra l’essere e il non essere, fra le tenebre dell’errore e la luce della saggezza, fra ciò che è destinato a morire e quello che vive in eterno, e di conseguenza reagirà di impulso alla triste situazione in cui è venuto a trovarsi a causa della malvagità dello zio, escogitando il suo insano castigo.
Va ricordato, che pure Orazio e le sentinelle vedono lo spettro, ma sarà il solo Amleto a dialogare con lui, segno evidente che la sua mente turbata e agitata dal dolore confonde e scambia uno stato emotivo sovreccitato con la pura voce della propria coscienza; e possiamo pensare a quante persone, disperate per la perdita improvvisa di un loro caro, si rivolgono a qualche medium e alla negromanzia per avere qualche contatto con l’anima di un loro caro defunto. Nel caso di Amleto, vediamo come certe emozioni dolorose siano capaci di esplodere in una fitta serie di terribili dubbi. Questa associazione di emozioni negative e insicurezze portano progressivamente il giovane principe in uno stato di totale confusione mentale, e quando in questa confusione confluiranno timorosi sentimenti di ira e odio, egli sprofonderà nel vortice della vendetta e nella sua applicazione. Per questa ragione, Gandhi ammoniva: “Mantieni i tuoi pensieri positivi, perché i tuoi pensieri diventano le tue parole… Mantieni le tue parole positive, perché le tue parole diventano i tuoi comportamenti… Mantieni i tuoi comportamenti positivi, perché i tuoi comportamenti diventano le tue abitudini… Mantieni le tue abitudini positive, perché le tue abitudini diventano i tuoi valori… Mantieni i tuoi valori positivi, perché i tuoi valori diventano il tuo destino.” Infatti, Amleto, accecato da sentimenti, emozioni, pensieri negativi, ‘deformerà’ il proprio destino e quello degli altri personaggi, trascinandoli tutti nel tragico epilogo che conosciamo. Ora, per assurdo, proviamo a simulare e a domandarci quale sarebbe stato il comportamento di questo fragile ragazzo se, anziché lasciarsi prendere dal dolore e dalle proprie afflizioni, avesse cercato di agire secondo i nobili principi dello Yoga.
Anzitutto, supponiamo che come frutto di un lavoro fatto già prima della morte del padre (kriyā yoga) il nostro aspirante yogi abbia mantenuto una discreta calma mentale anche nel dolore del lutto, calma sostenuta da una certa fiducia in se stesso. Proprio questa ‘certa’ fiducia, come una ‘certa’ pazienza, sono le due qualità basilari richieste a ogni buon praticante di Yoga. In questo modo, seguendo fiducioso i consigli del suo maestro, il nostro giovane praticante avrebbe anzitutto fronteggiato i pensieri impulsivi di vendetta concentrandosi ogni volta su pensieri opposti a quelli, cioè positivi e di pace (pratipakṣa bhāvanam). Egli avrebbe adoperato questa ‘tecnica immaginativa’ insieme ad altri strumenti messi a sua disposizione dallo Yoga, quali āsana, prāṇāyāmamantra, che lavorando in sinergia purificano il sistema psicofisico afflitto e squilibrato, al fine di ristabilire al più presto la salute e la lucidità mentale. In una fase successiva, il prolungarsi della pratica lo avrebbe condotto spontaneamente verso un’opportuna, sana concentrazione mentale, utile per riflettere in maniera più pacata e distaccata sulla difficile situazione. Una riflessione è sana quando viene illuminata dal suo interno dalla stella della discriminazione, poiché solo quest’ultima può consentire al praticante spaesato di prendere una giusta decisione e quindi, di conseguenza, di agire in modo giusto. È un processo che richiede tempo, perché le risposte a problemi che abbiamo appena individuato, magari grazie al nostro insegnante e all’effetto purificatorio della pratica, non devono essere forzate. Ogni nostra distorsione mentale, ogni tendenza insana del nostro carattere, ogni vizio ben insediato in noi, è frutto di un accumulo di errori che si ripetono da un lontano passato, e non possono certo svanire in un lampo.

Proseguendo nella nostra simulazione, si potrebbe anche supporre Amleto come un praticante di livello più avanzato. A questo punto, egli seguirebbe i precetti dell’aṣtanga-yoga riportati da Pataṇjali, tanto che il problema della vendetta non si porrebbe nemmeno, poiché nei primi cinque precetti fondamentali che riguardano il nostro comportamento sociale (yama) si vieta di ferire e di essere violenti (ahimsā). Inoltre, ci viene richiesto di agire sempre con spontanea sincerità (satya) nonché di essere onesti (asteya) di mantenere sempre la direzione verso Qualcosa che è più alto di noi (brahmacarya) senza accumulare alcun tipo di ricchezza (aparigraha). Questi valori sociali, ‘esterni’, sono da sviluppare contemporaneamente a quelli individuali, ‘interni’ (niyama) che sono: la purezza, intesa come pulizia a livello fisico e mentale (śauca); essere contenti e positivi (santoṣa); la purificazione che proviene dal praticare costantemente (tapas); l’osservazione fuori e dentro di noi (svādhyaya) attraverso il raccoglimento, la meditazione o la preghiera. E, infine, un agire non condizionato dai risultati ottenuti, libero, che culmina in una luminosa e amorevole consapevolezza spirituale (īshvarapranidhana). Scopo della pratica ‘completa’ dell’aṣtanga-yoga è la stabilità emotiva e il mantenimento della mente in uno ‘stato meditativo’, ovvero di estrema attenzione e chiarezza per ogni evenienza.

Ora, scendendo più nel dettaglio, vediamo come avrebbe svolto la sua pratica Yoga il nostro giovane protagonista:

Per prima cosa, ogni giorno egli avrebbe eseguito alcune posture (āsana) così come stabilito negli Yoga-Sūtra di Patañjali, con il ‘giusto sforzo’ a livello fisico, respiratorio e mentale, in modo da avviare un primo e graduale ‘scioglimento’ delle tensioni (prayatna-śaithilya). Poi, egli avrebbe cercato di purificare il suo mentale pieno di rancore attraverso l’esecuzione di un prāṇāyāma basato su lunghe espirazioni, magari aggiungendo ritenzioni ‘a vuoto’ alla fine di ogni respiro. Si sarebbe applicato con continuità, fino a quando il suo respiro non fosse diventato lungo e sottile (dīrgha-sukshma). In più, sviluppando tramite una pratica adeguata l’auto-osservazione e il discernimento (svādhyaya e viveka) egli avrebbe ottenuto la capacità di prendere coscienza di certi pensieri negativi durante o fuori dalla pratica, e sempre seguendo i consigli di Patañjali (sūtra I.33) avrebbe cercato, se non il perdono o la compassione per l’azione nefanda dello zio e l’errore della madre, almeno di prendere le distanze dal loro comportamento, senza ergersi a giudice e vendicatore. Inoltre, egli avrebbe potuto gioire della purezza di Ofelia che gli offriva il suo amore, e magari, anziché invitare con tanta veemenza l’innamorata a rinchiudersi in un convento, scegliere egli stesso, per sé, la via di una casta vita monacale, rinunciando all’eredità del trono e di conseguenza alla sanguinaria vendetta. Certo è che l’eventuale decisione di abbandonare la corte per il convento sarebbe potuta scaturire solo da un Amleto animato da una fede autentica e dalla più pura devozione (īśvarapranidhana). Tra i diversi scenari che per gioco si possono supporre per un Amleto yogin, quest’ultimo epilogo è quello più estremo, addirittura opposto a quello narrato dal grande Shakespeare, il quale sceglie l’effetto catartico della tragica carneficina finale proprio per ammonirci dal percorrere le fosche strade perdute dell’ira e dell’odio.