La contentezza

La contentezza (1)
— saṃtoṣā —

Santosha, in sanscrito, significa ‘piena contentezza’, ed è a questa ‘umile’ virtù che ogni sano praticante di Yoga dovrebbe aspirare nel tempo.

La parola italiana contentezza deriva dal latino contentum, participio passato di continere: ‘contenere, trattenere entro certi limiti’ e quindi, per definizione: ‘contento è chi si contiene entro limiti determinati, senza volere di più’.

Nei Veda, una perfetta contentezza risiede nell’emancipazione, ma per emanciparsi da ogni legame mondano bisogna per prima cosa avere la capacità di ‘lasciare andare’, in un lungo e lento incedere interno ed esterno, fino ad arrivare a perdonare noi stessi e gli altri. Questo graduale e lento processo di purificazione, mentre fa diminuire l’infelicità, aggiunge contentezza alla nostra esistenza, ci rende sempre più consapevoli e liberi, ci fa sentire che la contentezza è libertà, ed è possibile mantenerla e accrescerla attraverso un’emancipazione progressiva da ogni attaccamento e paura.

Nel suo primo libro sullo Yoga, il saggio Vasishtha elenca i quattro guardiani della liberazione (moksha):

Pace mentale
Indagine sul Sé
Contentezza
Associazione con i saggi

È evidente e sottinteso che tali ‘guardiani’ vengono alimentati da una pratica (sādhana) che favorisce il progresso psico-fisico-spirituale dello yogin.

Nel Mahābhārata di Vyasa, il libro che tratta l’immensa epopea del popolo indiano, si trovano riassunte in forma letteraria le principali dottrine della tradizione filosofico-spirituale indiana. Nel capitolo 21 del 12° libro sulla ‘pacificazione’ (shanti-parvan) si parla della contentezza (santosha) in questi termini:

Santosha è il cielo più alto
Santosha è la più alta beatitudine
Santosha è la beatitudine dell’Essere Assoluto (Brahman)

Si potrebbe affermare che santosha è stare nelle grazie di Dio.
E Vyasa aggiunge che santosha è una contentezza mentale acquisita che va al di là di qualsiasi contesto, piacevole o doloroso, di successo o fallimento.

Sempre all’interno del Mahābhārata, nel 12°capitolo della Bhagavad-Gītā, dalla strofa 13 alla 20, Krishna definisce le caratteristiche comportamentali a lui più care e possedute dal vero virtuoso. Fra queste, nelle strofe 13 e 19, troviamo per due volte ripetuta la parola santosha.

Lo yogin sempre contento
capace di controllarsi
che è fermamente risoluto
con la mente e l’intelletto
fissi su di me
che a me è fedele
costui mi è caro.
(BG XII,13)

Colui che considera nello stesso modo
il biasimo e la lode, silenzioso
soddisfatto di qualunque cosa
senza una dimora fissa
con la mente stabile
a me fedele
quest’uomo mi è caro.
(BG XII,19)

Shankarācārya, nel suo Vivekacūdāmani afferma che la contentezza è una virtù necessaria, poiché libera l’essere umano dalla compulsione di tutti gli attaccamenti e da tutte le paure. Acquisita la contentezza, il praticante risiede secondo la propria libera volontà, fa la cosa giusta, segue la propria vocazione sempre e ovunque.

Infine, Vacaspati Mishra, grande commentatore degli YS di Patañjali, definisce la contentezza, come: “Il desiderio per non più del necessario a mantenersi in vita”.

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L’esistenza umana, come opportunità di essere felici, è caratterizzata da quattro stadi diversi:

Scontentezza
Accontentamento
Contentezza
Beatitudine

Ogni essere umano, che è relativamente libero di agire, tramite il proprio arbitrio può avanzare e/o stazionare in uno di quattro stadi suddetti. Le afflizioni (klesha) che tormentano l’essere umano, basate su uno stato di ignoranza congenita, sono proporzionate direttamente ai nostri attaccamenti, alla nostre avversioni, alle nostre paure. Progredire verso la beatitudine significa togliere spazio a tali afflizioni.

La scontentezza è quello stadio dove c’è malessere, dove si soffre e si è insofferenti, poiché si è in balìa degli eventi che possono modificare facilmente il nostro stato d’animo e portarci ad agire per reazione. La scontentezza ha radici profonde e lontane nel tempo, che vanno anche oltre l’infanzia e che si sviluppano durante la nostra esistenza, occupando lo spazio della nostra felicità. La scontentezza cresce sul terreno dei desideri sbagliati che possono tramutarsi in frustrazioni e avversioni qualora vengano ostacolati e non sia possibile esaudirli. In un suo libello poetico sullo Yoga, Krishnamacarya così definisce il desiderio:

16. Il desiderio è l’origine della malattia,
Appagato un desiderio, la malattia si estende ad altri,
Ma attraverso lo Yoga,
Svanisce il bisogno di nutrire il desiderio.
(Yogāñjalisāram)

Nell’accontentamento, invece, si prova generalmente una soddisfazione egoistica, a seguito di qualche risultato gradito. In questo stadio si dipende dai risultati ottenuti e di conseguenza, la nostra felicità dipenderà dal successo o dall’insuccesso di un progetto razionale, di un’azione perseguita al fine di provare un piacere, perlopiù di tipo materiale. La felicità che possiamo sperimentare nell’accontentamento può essere anche molto intensa, ma mai stabile, così, di conseguenza a un eventuale insuccesso si torna di nuovo nell’afflizione e nella scontentezza.

Nella contentezza c’è appagamento stabile, ottenuto grazie alla strenua applicazione di una ricerca di purificazione, di conoscenza e di consapevolezza. Più cresce la ‘frequentazione’ della contentezza, tanto minori sono le probabilità di ricadere nella scontentezza.

La consapevolezza del corpo è contentezza
La consapevolezza del respiro è contentezza
La consapevolezza della mente è contentezza
La consapevolezza della libertà è amore
La consapevolezza dell’amore è liberazione
(Buddha)

Il corpo, nella contentezza, sperimenta il ‘piacere’ (sukham) particolarmente nelle posture (āsana) di allungamento. Sensazione che viene esaltata dalla consapevolezza che nasce dall’attenzione portata sul respiro mentre si eseguono gli esercizi.

Si sperimenta contentezza quando il respiro è consapevole. Lo yogin controlla dapprima la fase della sospensione del respiro ‘a vuoto’, quindi allunga l’espirazione (dīrgha), poi quando il flusso dell’aria espirata diventa sempre più ‘sottile’ (sūkshma) egli procede potenziando l’inspirazione, espandendo i propri polmoni, percependo dentro di sé la contentezza del prāna. A questa fase ne segue un’ultima, quella del trattenimento ‘a pieno’ dell’aria, dove lo yogin sperimenta la pienezza dell’integrazione con tutto quello che lo circonda.
L’espirazione è distacco, ma è la ritenzione ‘a vuoto’ il luogo iniziale e finale della contentezza. Si comincia a lavorare sulla pausa ‘a vuoto’ per favorire la calma mentale, si ottiene così una sensazione di maggiore fiducia nel proprio respiro che ci consente di allungare l’espirazione e poi, con l’introduzione della ritenzione ‘a pieno’, anche l’inspirazione. Lo yogin impara dal proprio respiro, ma soprattutto dalle ritenzioni fra un respiro e l’altro (kumbhaka) che la mente può essere governata e all’occorrenza messa a tacere. Praticando le loro avanzate tecniche respiratorie, gli yogin hanno sperimentato che abbandonando mentalmente le cose materiali ci si ritrova pieni di una felicità ‘divina’.

Quando la mente sperimenta delle sensazioni interne, in uno speciale stato di ‘pacificazione attiva’ dei sensi (pratyāhāra) che non vengono più provocati da stimoli esterni, allora lo yogin può concentrarsi (dhāraṇā) su quell’unico oggetto di conoscenza prescelto in grado di fargli sperimentare una pace intensa, piena di contentezza. La frequentazione di questo oggetto avrà una doppia funzione; da una parte si approfondirà, evolvendo in autentica meditazione e contemplazione, e dall’altro servirà da rifugio contro eventuali ostacoli che dovessero frapporsi fra il praticante e il suo stato di contentezza raggiunto. Dalla contentezza si può retrocedere fino al suo livello ‘più basso’, ma difficilmente si ricade nell’accontentamento.
Uno stato di contentezza prolungato evolve spontaneamente, nel tempo, in beatitudine.

Nella beatitudine troviamo la pace suprema della mente, così come dei sensi che la servono. L’essere umano che la raggiunge, dimora nel Benessere Assoluto.

Si tratta di un livello di contentezza che risiede oltre il mentale e che potremmo definire come contentezza nel ‘cuore’. È quella di cui i grandi saggi e poeti vedici ci hanno lasciato una splendida testimonianza nei loro componimenti, frutto di stati meditativi profondi che contengono al loro interno dei potenti mantra. Così, avendoli messi a disposizione di coloro che sono in grado di sentirli, cioè di farli risuonare nel proprio cuore, dall’effetto di tali mantra sarà possibile risalire direttamente, direi alla velocità del suono, alla luminosa sorgente di beatitudine interiore che li ha generati.

Riassumendo:

Sulla strada verso la felicità, spesso si parte da uno stato di scontentezza che nel tempo, se non interveniamo coscientemente, si tramuta progressivamente in una penosa, reale sofferenza. Allora si cercherà la fuga nella ricerca di qualsiasi piacere che ci renda anche solo momentaneamente felici. Purtroppo, tutti quelli che intraprendono questa via che potremmo definire del godimento o del piacere effimero dei sensi, prima o poi sono costretti ad ammettere che gli manca sempre ‘qualcosa’, che non si sentono mai stabilmente felici. Fra questi, i più, non riuscendo a realizzare la ragione del loro ‘malessere’, cadono in uno stato di grave abbattimento e profonda scontentezza che può sfociare in un’autentica depressione.
La contentezza, invece, coincide con l’aspirazione principale di ogni essere umano, quella di essere felice davvero, in modo stabile, senza gli alti e bassi che caratterizzano l’accontentamento. Il meditante, lo yogin, sulla via della contentezza scopre che dietro alla ricerca inesausta della felicità si cela la propensione innata dell’essere umano alla libertà, la sua più alta aspirazione. Così, quanto più ci si libera da paure, attaccamenti, avversioni, egoismi, tanto più cresce quella sensazione interiore di spaziosità e di eternità che ci fa essere davvero contenti.

 

La contentezza (2)

È noto che quando si ha paura il respiro ‘si sospende’ o che diventa più corto e rapido quando siamo arrabbiati. Questo fenomeno avviene in modo naturale, cioè fuori dal nostro controllo. Ma cosa succede quando, come in queste occasioni, tratteniamo involontariamente il nostro respiro?

Si va in apnea, accumulando tensioni mentali e di conseguenza fisiche. Viceversa, sappiamo attraverso lo Yoga che un’apnea controllata, cioè volontaria , a seconda se venga effettuata ‘a vuoto’ o ‘a pieno’ può rilassare o potenziare la nostra energia vitale.

Effetto della scontentezza è certamente il trattenimento involontario, spesso ‘a pieno’, dell’aria nei nostri polmoni.

Effetto dell’accontentamento è sempre un tipo di respiro non controllato, altalenante, che dipende da momenti di eccitante piacere o di fiacco dispiacere.

Invece, nell’assottigliamento, così come nell’allungamento del respiro, si riconoscono gli effetti della contentezza, che prevede un respiro ‘ritmico’, controllato in tutte le sue fasi. Nel ‘sottile allungamento’ del proprio respiro, l’uomo avverte una sensazione di calma e serenità, così come di espansione della propria coscienza Per l’aspirante yogin, prendere coscienza del respiro, riconoscersi in esso, è il primo passo sulla strada che lo condurrà alla contentezza. Senza questa scelta di operare attraverso e sul proprio respiro, non potrà esserci che un progresso illusorio, probabile delusione e infine di nuovo scontentezza o abituale accontentamento.

Ma il controllo del respiro, secondo lo Yoga, serve soprattutto a ‘domare’ l’ego, che è il fattore subdolo da dove originano le nostre identificazioni sbagliate. Quando le cose non vanno come vorremmo, diventiamo irritabili, facilmente scontenti, delusi e confusi, non leggiamo più gli eventi oggettivamente per quello che sono, ma li soggettiviamo, li strumentalizziamo. Per tornare a essere contenti dobbiamo cominciare a lasciare andare ogni giudizio soggettivo su come dovrebbero andare le cose, a prendere la giusta distanza dai fatti, a ricercare l’oggettività nelle nostre azioni, così come nelle azioni altrui. Il prāāyāma serve anche a questo, imparando ad affidarsi al proprio respiro lo yogin impara a vivere secondo coscienza, iniziato a una seconda nascita. Allora il mondo esterno sembra cambiare, ma solo perché lo yogin impara a osservarlo con occhi diversi, più attenti. Ci si accorge che il mondo è quello che è: non è un nemico, ma nemmeno un amico, anzi, che nella propria, più profonda essenza è sostanzialmente neutro, così come lo Spirito che tutto pervade. In effetti, la nostra coscienza utilizza il mondo per ‘mettersi alla prova’ e conoscere se stessa come essenza distinta dal mondo della sostanza in cui abita. Gli effetti di tutto ciò che esiste possono procurarci scontentezza o contentezza, a seconda di come noi mentalmente ci relazioniamo ad essi, cioè di come li interpretiamo e viviamo nel nostro ambiente mentale. Per questo, secondo i maestri orientali, la vita è soprattutto un processo interiore; più che nel mondo reale, è con la mente che passiamo la maggior parte del tempo della nostra esistenza terrena e basti immaginare quante ore ogni notte viviamo nei sogni notturni, o quanto tempo ogni giorno indugiamo in vecchi ricordi o lo passiamo a fantasticare, immaginando auspicabili scenari di vita futura. Tutta vita estromessa dal presente che regaliamo alla morte. La scontentezza è pure una conseguenza di questa dolente e comune perdita di tempo presente.

C’è il tempo immutabile dell’essere e c’è il tempo mobile del divenire. C’è un’eternità della contentezza che solo i mistici, sebbene appartenenti a differenti tradizioni, vivono nel profondo e che chiamano beatitudine, e c’è un contingente di felicità effimera, poiché limitata nel tempo, che si potrebbe definire una contentezza ‘a scadenza’.

Lo yogin pratica le posture per fare funzionare al meglio il proprio corpo e per disciplinarlo dalle intemperanze causate dal rajas, ovvero dalle turbolenze dei desideri. Egli si allena per restare ‘fermo’ nella più impassibile calma mentale, attraverso l’uso consapevole di specifiche posture e soprattutto del respiro. A seguito di un lungo tirocinio e di reiterate, preventive purificazioni, succede che quando il respiro dello yogin si sospende, nelle apnee da lui controllate, il prāa ascende nei canali energetici, fino all’ ājñācakra, dove si ha l’effetto della più profonda contentezza. E poi, nel tempo, cercando di raggiungere il sahasrāracakra, il luogo fisico della beatitudine, la fontanella in cima al cranio.

Dal prāa, cioè dalla nostra vitalità che risiede nel respiro si può risalire fino all’origine della vita, all’essere e all’eterna beatitudine. Gli yogi e i mistici di ogni tradizione spirituale aspirano a questa conoscenza che è basata esclusivamente sull’esperienza personale. Tale esperienza viene da loro spesso definita in termini di Luce, pura e piena d’Amore. Essi ribadiscono che tale Luce d’Amore viene celata dal benché minimo pensiero, anche se d’amore terreno. Qui, nell’esperienza della più alta contentezza, che è beatitudine, vale la legge ‘del tutto o del nulla’. I mistici insegnano che la conoscenza del divino è sempre radicale, perché può essere totale o non essere affatto. Quindi arrestare il flusso continuo dei pensieri per essi dipende in modi diversi (es. rosario, preghiera del cuore, prāāyāma, mantra, ecc.) ma sempre dal respiro. Lo yogin controlla il flusso del respiro e soprattutto le pause ‘a vuoto’ o ‘a pieno’ con l’obiettivo di arrestare la propria sete di vita terrena, costituita da desideri, avversioni, preoccupazioni che determinano idee, pensieri, emozioni e sentimenti che riempiono quotidianamente tutto lo spazio mentale. Inoltre, come si può facilmente intuire, per mantenere in atto tutte queste attività mentali si consumano le energie fornite da quella vitalità di cui siamo dotati. Lo yogin, invece, tramite le diverse tecniche di sua conoscenza, utilizza come un trampolino tutte le proprie energie vitali, le incanala in un’unica direzione prestabilita, al fine di ottenere una mente sattvica per conseguire la conoscenza interiore o spirituale e, infine, le ‘abbandona’ nel momento dello ‘slancio mistico’. L’effetto di questa esperienza è prima la contentezza e poi la beatitudine.